In onda su Rai5, poi in streaming su RaiPlay, un docu-film sul grande artista curato dalla giornalista Rita Rocca. Il ricordo della coreografa e prima ballerina Daniela Maccari per teatro.it.
Angelo e diavolo, fragile e spietato, lucido e smarrito, folle come Nijinskij, libero come il cantastorie che gira di città in città. Lindsay Kemp ha dato profonda umanità a tutti i personaggi che ha interpretato. Ha trasformato il modo stesso di fare e concepire il teatro. Ma soprattutto ha fatto della sua vita una danza meravigliosa.
A lui, artista iconico del teatro-danza, è dedicato il docu-film Lindsay Dances – Il Teatro e la Vita secondo Lindsay Kemp. Una produzione Rai per la serie InScena, trasmessa sabato 2 maggio (ore 22,40) in prima nazionale su Rai5 e in streaming da RaiPlay. A curare il film è Rita Rocca, giornalista ed estimatrice di Kemp.
L'uomo, l'artista, l'eredità
Da Flowers a Duende, da Midsummer Night’s Dream a The Big Parade, da Alice a Onnagata fino ad arrivare all'ultimo Kemp Dances, il filo conduttore è il racconto dell’artista che in una lunga intervista, fra tazze di tè, disegni e risate, scandisce un percorso umano e artistico che arriva fino al 2018, anno della morte.
Accanto a Kemp, parlano i compagni di vita e di lavoro: il regista e performer David Haughton, i danzatori delle compagnia e la coreografa e prima ballerina Daniela Maccari, a cui Kemp ha affidato il compito di continuare a portare in scena i suoi ruoli.
E' con lei che parliamo dell'esperienza vissuta al suo fianco e del percorso del grande artista.
Come vive la responsabilità di un’eredità artistica così importante?
Per Lindsay il concetto di responsabilità è il fulcro dell’artista. Non è mai un atto narcisistico ma un dono generoso a tutti, pubblico, artisti, tecnici. E il pubblico deve uscire trasformato dallo spettacolo. Quando anni fa Lindsay mi ha chiesto di provare i suoi ruoli per danzarli dopo la sua morte ho sentito ancor di più la responsabilità come condivisione. Vogliamo far brillare il suo universo artistico e farlo conoscere alle nuove generazioni.
Uno dei suoi ruoli che ha interpretato?
L’assolo The flower, nascita e morte di un fiore. Dalla posizione fetale all'estasi del sole fino allo spegnersi del fiore, è il simbolo della vita. Ogni volta che lo interpreto capisco qualcosa di più di questo lavoro così semplice e profondo in cui si esprime il suo “danzare come fosse la prima volta e al tempo stesso l’ultima”.
Perché il lavoro di Kemp è leggenda?
“Sono solo un danzatore”, diceva. Credo che a creare la leggenda sia stata la sua generosità artistica. Attraversato da una libertà totale, per lui ogni gesto quotidiano diventava una danza bellissima. Eppure le tematiche affrontate nei suoi spettacoli sono di forte impatto: emarginazione, prostituzione omosessualità, carcerazione, follia, disperazione. Flowers, tratto da Nostra signora dei fiori di Jean Genet, racconta tutto questo. Ma lo proietta in una dimensione di sogno e bellezza Ecco, per raggiungere questo livello di contatto con se stesso e con l’umanità il performer deve entrare in una sorta di trance.
Come lavorava con gli artisti?
Cercava di farli liberare dalle inibizioni fisiche, mentali, culturali. “Voglio vedere il vostro spirito che danza”, diceva. Citava spesso Isadora Duncan ma in realtà le sue fonti sono il cinema, il teatro giapponese, la pittura, la letteratura, il musical, la commedia dell’arte, la storia. Ma soprattutto la vita. Per Kemp lo spettacolo è un atto d’amore: “I dance for you”.
Era perfezionista?
Curava ogni dettaglio dello spettacolo. Diceva che ogni pubblico, anche in un teatro di periferia, ha diritto di vedere il più bello spettacolo possibile. Per La femme en rouge, di cui ho creato il ruolo, ha visionato decine di campioni di stoffe. Quando non trovava il colore giusto si metteva lui stesso a fare prove di tintura. A proposito di rosso, adorava il film Scarpette rosse, da cui aveva preso il suo rituale: dipingere un puntino rosso fra la parte interna dell’occhio e il naso. Tutti noi dovevamo avere quel puntino perfetto. Era ossessionato dal trucco, che aveva appreso giocando con la madre nei rifugi durante la guerra. Così si distraeva e non badava al boato delle bombe.
Un’infanzia e adolescenza complicate?
La sorella maggiore morì di meningite prima che lui nascesse. Fu un grande dolore per la madre. Lindsay diceva di essere nato per alleviare quel dolore. Vivevano a South Shields, Inghilterra. C’erano poche occasioni culturali. Il padre era un ufficiale della Marina e viaggiava spesso. Quando rientrava dall'Oriente portava kimono, ventagli, sete e stampe con cui Kemp imparò a creare personaggi. Fu così che, contro il bullismo che subiva nel collegio navale a cui era stato indirizzato per seguire le orme del padre, cominciò a intrattenere i compagni con spettacoli.
Cosa amava ricordare del suo periodo alla scuola navale?
Una sera eseguì nel dormitorio la danza dei sette veli di Salomè. Ma non aveva materiali per il costume e allora usò la carta igienica. La cosa che ha sempre colpito Lindsay, quando la direttrice minacciò l’espulsione, fu il riferimento allo spreco di carta igienica.
E poi?
Finita la scuola Lindsay va spesso a Londra, vede spettacoli, va al cinema, segue le lezioni della Rambert School. Impara da ogni fonte possibile, persino dal Bignami della danza, il Ballet Lover Pocket Book. Tenta l’audizione alla Royal Ballet School ma la risposta è: “La informiamo di non ritenerla né caratterialmente né fisicamente idoneo alla carriera di danzatore”. Poi parte per il servizio militare ma proprio non ce la fa a resistere. Allora dichiara la sua omosessualità. Viene ricoverato in psichiatria e torna casa.
Dall’insuccesso alla scuola del Royal Ballet a Flowers?
Alla fine degli anni ’50 comincia a lavorare nel musical. Ben presto capisce, anche grazie all'incontro con Marcel Marceau, spettatore a sorpresa in un suo spettacolo “molto ispirato”, che deve creare qualcosa di suo. E’ il grande mimo francese a insegnarli l’espressività delle mani e a incoraggiarlo. Negli anni ’60 fonda il suo primo gruppo. Nasce Flowers, in uno scantinato di Edimburgo. E’ questo lo spettacolo che lo porterà in tournée mondiale. Poi è la volta di Salomè.
Non si era mai visto un uomo in quel ruolo. E la sensualità della sua danza rendeva il personaggio ancora più onirico.
In Salomè usava anche un serpente in scena?
Sì. E lo sfiorava fin quasi a baciarlo. Un aneddoto. Il serpente di scena muore per uno sbalzo di temperatura. La compagnia fa un annuncio radiofonico per trovare il sostituto. Si presentano in fila gli artisti della zona a luci rosse di Amburgo con la loro gabbietta in mano per il casting del serpente. Lindsay era così: la realtà entrava nei suoi spettacoli semplicemente, ma diventava visione potente.
L’esperienza con David Bowie?
Un incontro fortunato. Quando il cantante era molto giovane e ancora sconosciuto Kemp utilizzò la musica di un suo album per uno spettacolo. L’artista ne rimase folgorato e gli chiese di fargli da maestro. Nacque così Pierrot in turquoise. E la loro storia d’amore. Tornarono a collaborare per la messa in scena di Ziggie Stardust. Anche il mondo del rock con Lindsay diventa teatro.
Quale sogno non ha realizzato?
Portare in scena Dracula’s kiss. Un omaggio al cinema muto, al Nosferatu di Murnau e anche a quello degli anni ‘70 di Herzog. Dracula per lui non era un personaggio diabolico, aveva una connotazione fragile e romantica. Mordere il collo era la sua malattia. Ecco la capacità di Kemp nel cogliere gli aspetti più profondi dell’essere.